L'Italia di oggi, quella che la globalizzazione ha relegato a comprimaria nelle dinamiche mondiali, è un paese stretto da tre deficit: di coesione sociale, di missione, di decisione. Crisi sociale, crisi economica, crisi politica. E’ esplosa la disaffezione politica – astensione dal voto, crollo delle iscrizioni ai partiti, disinteresse e caduta della partecipazione civica - ed anche regioni ad alto tasso di ‘civismo’ allontanano la loro sensibilità dai luoghi istituzionali.
Il riformismo del terzo millennio è chiamato a definire una visione di società alternativa a quella della destra, che ha già scelto la sua strada sposando la triade tremontiana ‘Dio, patria, famiglia’.
E’ la sinistra ad essere in ritardo, perché ha reagito al cambiamento senza aver saputo leggere la trasformazione radicale della società italiana. Il caso Fiat ne è l'emblema, con la riproposizione dello scontro di classe e della logica del conflitto tra lavoratori e padroni. I cancelli di Mirafiori portano ancora la ruggine del Novecento.
I fattori decisivi attorno ai quali costruire il ritorno al governo sono il merito, l’inclusione, la responsabilità, l’identità e l’autorità. Includere atipici e flessibili, quel 'terzo popolo' che ha retto l’economia italiana nel vortice della crisi senza avvalersi di nessuna tutela. Includere significa considerare i cittadini non solo come produttori ma anche come consumatori, imporre la parità di genere, consentire ai migranti in regola con la legge di godere dei nostri stessi diritti. Il merito è il principale strumento per tendere alla giustizia sociale, stabilire un'uguaglianza di opportunità e sconfiggere il familismo amorale. Il merito riguarda amministratori e legislatori, perché il governo della cosa pubblica, il comportamento degli amministratori, la condotta civica richiedono rigore e responsabilità. È ormai troppo alto il costo dei diritti conquistati e dilatati oltre misura nel secolo scorso, occorre bilanciarli con più doveri e più responsabilità.
La sinistra deve infine conservare la sua tendenza cosmopolita dimenticando di essere l’erede del terzinternazionalismo e ricordandosi di essere soprattutto ‘nazionale’. Deve coltivare di più e meglio le identità territoriali, con un riformismo 'glocal' che sappia declinare questa nuova visione del mondo in decisioni capaci di accrescere lo sviluppo di un territorio e definire un diverso assetto istituzionale contro i tanti conservatori. Gli stessi che per decenni hanno negato all'eresia riformista il diritto di cittadinanza nella sinistra italiana.
RICCARDO NENCINI
(da Corsera-Fi del 14 gennaio 2011)
MI DISTURBAVA LA PAROLA RIFORMISMO SENZA LA PAROLA SOCIALISMO. ORA ODIO LA PAROLA RIFORMISMO CHE SI VUOLE SOSTITUIRE ALLA PAROLA SOCIASLISMO.
RispondiEliminaClaudio Marra
Da una nota pubblicata da Giuseppe Giudice () il giorno sabato 15 gennaio 2011 alle ore 23.26
"Turati non accettò mai il termine riformista e non si considerò mai tale.
Turati pensava al soci...alismo come forza rivoluzionaria e non riformista. Rifiutava la concezione leninista e bolscevica della rivoluzione come presa del potere da parte di una avanguardia che si autoproclama tale gestendo il potere in modo autoritario e violento. Ma riteneva la sua posizione come gradualista e rivoluzionaria al tempo stesso, perché la rivoluzione sociale (a differenza di quella politica) ha tempi molto più lunghi ed è un processo molto più complesso.
In questa visione di fondo, se riflettiamo un po’, si ritrova, nelle linee essenziali, tutta la tradizione socialista italiana successiva da Nenni a Rosselli a Saragat a Lombardi. Ma anche in quella di comunisti come Di Vittorio ed Amendola.
Il termine riformista fu reintrodotto con forza nel 1980 da Craxi per dare un nuovo nome alla sua corrente (prima chiamata autonomista)."Mostra tutto