Come Ceausescu, e come
Mussolini, la fucilazione di Gheddafi era inevitabile, un rischio del
mestiere. Diciamo questo non per fatuo cinismo o culto del taglione:
semplicemente, perchè la sopravvivenza in vita del dittatore è
impraticabile e insopportabile. In qualche modo, lo è anche per i
suoi seguaci, che possono vivere ancora nel culto del Capo morto,
meglio che nell’assistere impotenti alla sua umiliazione; morendo,
egli svolge per l’ultima volta la sua funzione: quella di incarnare
il regime. Per gli oppositori, ora vincitori, l’abbattimento del
regime è certificato in primo luogo proprio dalla sua morte fisica,
la catarsi del tirannicidio; mentre vivo, sia pur sotto processo, sia
pure incarcerato, egli è un anacronismo, un passato che non passa,
una minaccia. Minacciosa sarebbe pure la pietà, che prima o poi
insorgerebbe per l’uomo invecchiato e indebolito, relativizzato
nelle sue colpe dalla miseria della sua condizione. Particolarmente,
com’è ovvio, quando il nuovo regime è debole, e non può
permettersi nè nostalgie né chiamate di correo.
Gheddafi è stato uno dei
peggiori, tra i dittatori del Ventesimo secolo, anche se, come i
Mussolini, come i Ceausescu, ebbe all’inizio del suo potere più di
qualche simpatia all’estero. Negli anni 70, la sua affabulazione di
democrazia totale ingannò qualcuno, intento alla coltivazione di un
terzomondismo fasullo. Negli anni 80 e 90, nel crescente manifestarsi
di una patologia individuale e di una malattia collettiva, quella di
una Libia ormai isolata dal mondo, sempre più arretrata e
abbandonata a sé stessa, pure Gheddafi a intermittenza giocava la
sua partita sulla scena internazionale, e quindi trovava o ritrovava
interlocutori e alleati. In particolare, dopo l’11 settembre 2001
la sua avversione per l’islamismo fondamentalista apparve
consentirgli un riciclo, e nuove benemerenze, lui che aveva giocato
eccome con stragi e trame. L’ultima bufala dei dittatori arabi
“laici” è stata quella di accreditarsi come utili argini contro
l’orda islamica che popolava e popola le notti di chi non sa niente
della realtà del mondo arabo, ma magari ha responsabilità di
rilievo su questa sponda del Mediterraneo. Finzioni, chiacchiere,
come quelle terzomondista di trent’anni prima. Affabulazioni,
appunto, buone per coprire la vera partita: soldi, armi, petrolio.
E’ qui che il
Colonnello ha trovato le vere risorse del suo potere, e poi la sua
fossa: quando una rivolta che avrebbe potuto schiacciare facilmente,
è diventata l’occasione per regolare tanti conti, vecchi e nuovi.
Del resto, tocca dire che, per quanto insinceri o venali siano stati
i promotori della coalizione internazionale, hanno avuto dalla loro
argomenti pressoché inoppugnabili: ormai, per come si erano messe le
cose, consentire il bagno di sangue sarebbe stato impossibile (dice:
e perchè è consentito ad Assad, in Siria ? Bella domanda, ottima).
Dalla parte perdente, Berlusconi: che si era coltivato il Colonnello
con gusto tutto suo di piazzista, con quel cinismo, questo sì
davvero fatuo, degli italiani che sanno loro come si fa con ‘sti
beduini. Va poi sempre a finire così: sulla testa sorpresa
dell’Alberto Sordi di turno arriva la legnata della tragica
serietà della Storia, un 8 settembre con i tedeschi e gli americani
che quella serietà l’hanno compresa, e tutto prende un’altra
misura. Nel vuoto pneumatico della politica estera italiana, che non
fa e non dice praticamente niente di utile, che non svolge alcun
ruolo nel Mediterraneo, questo vizio nazionale di fatuità e furbizia
è emerso senza attenuanti: quando le cose si sono fatte serie,
Sordi-Berlusconi si è trovato stupito, un ceffone sulla faccia, a
spiegare con lui non c’entrava. Tragedia a Tripoli, commedia a
Roma.
LUCA CEFISI
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